And the Oscar goes to…

E ora che il negro si è ri-preso l’America per altri 4 anni, mettetevi comodi che non succederà assolutamente nulla.

Il teatrino politico statunitense è quanto di più stucchevole il sistema democratico sia riuscito a forgiare. La batracomiomachia tra repubblicani e democratici non è una tenzone politico-elettorale tra due contrapposti organismi ed ideologie politiche, bensì una sfida retorica tra due entità compenetrate che si oppongono per il gusto della sfida, per il piacere dei testa a testa, degli antagonismi. E’ una tensione quasi sportiva, tra squadra blu e squadra rossa. E’ una sceneggiatura hollywoodiana, un teatrale carrozzone mediatico il cui copione è già stato scritto e, ai candidati, viene chiesto solo di interpretarlo al meglio. Non dico che l’oscar presidenziale sia il coronamento della propria interpretazione drammaturgica, ma poco ci manca. Le sfide televisive tra Obama e Romney, compresa qualche piacevole digressione comica, sono fonti inesauribili per uno studio sistematico dell’operazione marketing che investe la politica americana. Ma allargando ancor più il grandangolo sono lo specchio fedele dello stato vegetativo in cui versa il sistema democratico. L’apparente vuotezza contenutistica e l’alta gradazione etica degli interventi, rappresentano perfettamente ciò che l’americano medio si aspetta dai loro candidati. Ma cosa significa ‘rappresentazione’ in America? In altre parole su quali basi John Smith dell’Ohio deciderà su quale pretendente porre la preferenza? Partendo dall’assunto che non essendoci nulla oltre la società, anzi la società americana è confine definibile per tutto ciò che in essa vi viene prodotto, il duopolio politico di marca anglosassone restringe particolarmente il campo. Sicché i blocchi contrapposti sono definiti in partenza, i grandi elettori decidono le sorti del popolo e per i concorrenti alla ‘Casa Bianca’ si tratta di attrarre dalla propria parte quanti più indecisi ed oscillanti possibile. Niente di più lontano da ciò che accade in Italia, nonostante il berlusconismo, soprattutto con la confluenza di An, Fi e Lega nel Pdl, abbia tentato questa strada: destra vs sinistra. Obama e Romney, di conseguenza, devono seguire una semplice agenda in campagna elettorale: 1) Fornire una prospettiva 2) Cavalcare i punti di debolezza dell’avversario. 3) Non commettere gaffe grossolane. Questa situazione è definita in partenza. Mentre se un candidato parte già con i favori del pronostico (apparentemente non era questo il caso) e l’inseguitore deve accrescere fortemente i consensi, come fu per l’inseguimento di Kerry a Bush, l’atteggiamento diventa meno attendista e, per converso, le battaglie elettorali più serrate ed interessanti. Obama e Romney si abbracciano, si sorridono, si salutano, cordialmente si citano e si danno ragione l’un l’altro. Questo perché la tattica del management prevede una difesa arroccata ad oltranza sulle proprie posizioni. In ciò è sicuramente stato svantaggiato Mitt Romney che durante le primarie si è atteggiato in maniera molto vigorosa ed energica, collezionando anche numerose gaffe che non ne hanno intaccato il dinamismo polemico e reazionario. Obama-nobel-per-la-pace aveva già la partitura pronta e, a fronte di una primo confronto diretto nel quale è apparso svagato e privo di grinta, nei successivi e decisivi due incontri, si è limitato a fare l’Obama. Gli slogan tipici del panorama politico americano sono quanto di più ipocrita possa incontrarsi. A fronte di un mondo, quello politico, totalmente inaccessibile alle persone di bassa estrazione e agli emarginati, gli slogan elettorali rimettono al centro del discorso proprio il popolo crasso, chiamato in questa circostanza decisiva ad esser parte della cosa pubblica. ‘Non chiederti cosa possa fare il tuo presidente per te, ma cosa tu possa fare per l’America’. Un rovesciamento classico, cortese o signorile fate vobis, ma che denota uno stacco netto tra politica e popolo. Non importa chi sia il tuo Presidente, ma che quel Presidente ti faccia credere che tu sei parte dell’american dream. Squallido. Ciò, congiuntamente alla posa manierista in cui si è sviluppata tutta la campagna elettorale dei candidati, ha fatto nascere in me la convinzione che non solo queste elezioni fossero già decise, ma che l’America, la patria esportatrice di democrazia per eccellenza, la culla del ‘se lo vuoi, puoi’ non sia un vero e proprio Stato democratico. Che l’elezione di Barack Obama, come lo fu 4 anni fa, dopo lo tsunami Bush jr, sia stata concordata a priori tra i grandi elettorali. Che a fronte dei numerosi cuori infranti, da chi si aspettava molto di più dal ‘profeta nero’, l’amministrazione abbia voluto dare continuità al programma per due motivi:1) Perché Obama, dopo un’iniziale autarchia che ha portato alla revisione della sanità pubblica, ha imboccato prontamente una politica molto più allineata. 2) Perché Obama ha rappresentato e rappresenta un punto di coesione sociale e nazionale che Romney, con la sua immagine sopra le righe, avrebbe turbato. In questo il popolo non c’entra nulla. Sappiamo benissimo come funziona il meccanismo elettorale u.s.a. quali sono le sue falle e sappiamo per certo che non è detto che venga eletto il candidato che ha raggiunto il maggior numero di voti tout court. Tutto il resto: sfide televisive, campagna serrata negli stati chiave, election day, exit poll, testa a testa sono tutti elementi riconducibili alla spettacolarizzazione che in America si tributa a ciò che è competizione. Una trama già scritta e solo da interpretare a piacimento e con il gusto della teatralità. Né più, né meno di ciò. Una serie tv lunga qualche mese. Con colpi di scena orchestrati, entrate magistrali di deus ex machina eccellenti (da una parte Trump, dall’altra Springsteen), testimonial d’eccezione (star della tv, del cinema, della musica, della letteratura). I fans, i tifosi, la claque. Alla fine ha vinto Obama e grazie al cazzo, nonostante Obama sia stato assolutamente una delusione internazionale, crisi permettendo.